L’ EDUCAZIONE

(DE EDUCATIONE)

di

Antonio de Ferrariis

GALATEO

 

a cura di Michele E. Puglia

 

Il presente articolo è collegato a

L’educazione del giovane feudatario e del principe rinascimentale

 da Dhuoda a Rabelais

in questa stessa sezione.

 

 

 

USI E COSTUMI

DEL XVI.MO

SECOLO

 

 

SOMMARIO: PREMESSA: LO SCRITTO DI BENEDETTO CROCE SUL GALATEO E LA DISCRIMINAZIONE DELL’UNIVERSITA’ DI PADOVA DI ERNESTO RENAN (In Nota: I re aragonesi di Napoli); DELLA EDUCAZIONE: PRESSO I DIVERSI POPOLI; I RE STRANIERI E I PAPI; LA CIROPEDIA; I NOSTRI TEMPI; I NOSTRI GENITORI;  LA DISCIPLINA DI GENOVA, FIRENZE, ROMA, VENEZIA; SIANO ANGIOINI O ARAGONESI; I GOTI AVEVANO INVASO LA SPAGNA DOPO ESSERSI CIVILIZZATI IN ITALIA; L’EDUCAZIONE DEI NOBILI SPAGNOLI;  GLI SPAGNOLI CREATI DALLA MORCHIA; EDUCA L’ILLUSTRE GIOVINETTO AI PRECETTI GRECI E LETTERE LATINE; RICEVESTI IL GIOVANE PRINCIPE ITALIANO,RENDILO ITALIANO; L’INCLITO ADOLESCENTE SI GUARDI DALLE MENSE APPARECCHIATE ALLA MANIERA ARABA O SPAGNOLA; I LIBRI DEI CUOCHI HANNO PIU’ MISTURE DI QUELLI DEI MEDICI; SORGA SUL PRIMO MATTINO ONDE NON PERDA IL CANTO DEGLI UCCELLI; FUGGA I LUNGHI E INUTILI DISCORSI CON LE DONNE (In Nota: Come i mori invasero la Spagna); QUALE CACCIA E MUSICA PER IL GIOVINETTO DI VIVO INGEGNO; SE L’INCLITO GIOVINETTO HA VOGLIA DI LEGGERE IN VOLGARE…E L’ESERCIZIO DEL CORPO ESCLUDENDO IL GIOCO DELLE CANNE; DEI GENERI DELLE VESTI NON SO CHE DIRE; COME E’ NATO IL DOMINIO DELLE DONNE SUI MARITI; L’ILLUSTRE ADOLESCENTE GETTI VIA GLI ABITI FRANCESI; SONO VENTIQUATTRO ANNI CHE I TURCHI SBARCARONO IN ITALIA.

 

 

 

PREMESSA:

LO SCRITTO

DI BENEDETTO CROCE

SUL GALATEO

E LA DISCRIMINAZIONE

DELL’UNIVERSITA’

DI PADOVA

DI ERNESTO RENAN

 

 

A

ntonio de Ferraris (1444-1517), detto il Galateo dal luogo di origine (Galatone), umanista, pensatore e moralista del Salento, proveniva da una famiglia di sacerdoti greci risalenti all’avo e progenitori; il padre Pietro notaio e prete ortodosso era ancora giovane quando fu ucciso, lasciando cinque figli di cui egli era l’unico maschio. Lo zio materno lo aveva affidato alle cure dei monaci basiliani e dopo aver terminato gli studi presso  l’università di Napoli, laureatosi in filosofia e medicina, ritornava nella terra di origine, stabilendosi a Gallipoli.

Fisicamente è stato descritto (diversamente da come è stato rappresentato) di corpo squadrato con testa grossa, fronte larga, occhi chiari e, pur essendo parco nel  sonno e nel cibo, era stato destinato alla obesità;  per di più a ventiquattro anni era stato colpito dalla gotta che egli decise di combattere, trattando poi a fondo l’argomento (secondo i canoni della medicina dell’epoca dominata da Galeno) nello scritto “Della Gotta” dedicato al vescovo Attilio di Policastro.

Oltre che in filosofia e medicina, era esperto di lingua greca e latina, versato in matematica e cosmografia;  la sua erudizione gli permise di entrare in contatto con gli umanisti dell’Accademia napoletana (che tra di loro mantenevano una stretta corrispondenza epistolare), come Pietro Summonte, Gioviano Pontano, Ermolao Barbaro (di cui abbiamo parlato nell’art. sulla Scuola di Padova), gli dedicò la parafrasi di Temistio della Fisica di Aristotile.

Aveva scritto numerosi saggi raccolti in quattro volumi; tra questi vi era lo scritto  sulla “Donazione di Costantino” in cui sosteneva l’opinione contraria a quella di Lorenzo Valla, che l’aveva ritenuta falsa, come era in effetti; Galateo era venuto  in possesso di una copia  di un libretto dell’anno dalla creazione  6714  (1207) scritto in greco, con alcuni errori che egli attribuiva ai copisti, proveniente dalla biblioteca degli imperatori di Costantinopoli; egli, dovendo recarsi a Roma, scriveva una lettera  al papa Giulio II al quale offriva il libretto in dono.

Galateo era stato primo medico di Ferdinando I d’Aragona e al giovane figlio di Alfonso, Ferdinando duca di Calabria (*), aveva dedicato lo scritto sull’Educazione; Alfonso, quando salirà al trono come Alfonso II, lo ricoprirà di benefici.

Il duca di Nardò, Bellisario, lo aveva elogiato per i suoi scritti De verborum ornatu, “De sententiarum gravitate” e “De activa et contemplativa vita” e di lui ne parla Paolo Giovio nell’ “Elogio degli uomini illustri” e Bartolomeo Chioccarelli nel libro sugli “Scrittori del regno di Napoli”.

Dalla moglie Maria Lubelli, figlia del barone di Sabarica, aveva avuto cinque figli (oltre a un figlio naturale); fu autore di numerosi scritti tutti in latino raccolti nella  Collana Scrittori di Terra d’Otranto (Lecce, Tipografia Garibaldi 1868 messa a disposizione di Google dalla benemerita Università del Michigan ... assenti anche in questo caso le Biblioteche Italiane! v. in Recensioni “La grande biblioteca virtuale di Google”).

Benedetto Croce aveva ritenuto che la importanza dello scritto fosse stata  determinata dalla circostanza che esso fosse una delle espressioni più efficaci della ripugnanza dell'italiano del rinascimento al contatto con i nuovi costumi e del popolo spagnolo il cui "soverchiare" parve come una nuova invasione barbarica.

Egli, inoltre, aggiungeva che, avendo utilizzato lo scritto del Galateo per il suo lavoro sulle relazioni tra la Spagna e l'Italia (in “La Spagna nella vita italiana della Rinascenza” ed. Laterza), aveva sentito il bisogno di scrivere una nota  che, essendo  divenuta lunga, la mandava al Giornale storico: “pregando il direttore di non volerle negare l'ospitalità”…  

Avevamo fatto lo stesso con l’articolo su “I primordi dell’Averrioismo e la Scuola aristotelica-averroistican di  Padova”, in base al noto testo di Ernesto Renan (razionalista), chiedendo ospitalità alla apposita sezione delegata alla Storia dell’Università di Padova, un tempo centro del razionalismo aristotelico; purtroppo l’articolo, non era stato scritto da Benedetto Croce ed era stato rifiutato!

Il rifiuto era elegantemente fondato sulla circostanza che “Renan è da considerare superato”(!) ... e questo nella più assoluta assenza di scritti sulla storia dell’Università di Padova, alla quale è delegata quella sezione (avevamo spulciato tutti i lavori pubblicati!); insomma il rifiuto non aveva alcuna giustificazione, all’infuori della circostanza che razionalismo e aristotelismo padovano sono stati abbandonati e per giunta, l’autore dell’articolo non faceva parte della corporazione!

Non vogliamo essere tediosi e non aggiungiamo altro sui misteri e peccati delle Università Italiane, che poco alla volta stanno venendo a galla, come dimostrano alcuni recenti arresti di accademici!

Ed ora, dopo lo sfogo, torniamo all’argomento.

Siamo agli sgoccioli tra la fine del 1400 e gli inizi del 1500; il re Federigo-Federico, per il figlio Ferdinando-Ferrante, duca di Calabria (nato nel 1488), al raggiugimento dell'età di dieci anni, nominava precettore, Crisostomo Colonna e e segretario, il conte di Potenza, Giovanni di Guevara.

Mentre il padre Federico moriva in esilio in Francia nel 1504, il figlio Ferrante si trovava a Taranto (1501) quando la città fu presa da Consalvo, il quale lo mandò  con il suo precettore, in Spagna; questa circostanza aveva dato al Galateo la possibilità di scrivere il saggio, per esprimere il suo desiderio che il giovane principe fosse educato alla maniera italiana e non spagnola, della quale egli dice, come vedremo, peste e corna!

 

*   *   *

 

Questo genere di scritti pedagogici non era unico; fioriti sin dal medioevo (come abbiamo visto in Dhuoda ecc.) e proseguiti in periodo umanistico con Gasparino Barzizza, Guarino Veronese e Vittorino da Feltre (che attingevano alle fonti di  Plutarco, san Basilio e principalmente alla “Institutio Oratoria” di Quintiliano, che costituiva un trattato completo sull’educazione) e rinascimentale, da Jacopo Sadoleto (1477-1547) a Leon Battista Alberti (1404-1472), a Monsignor Giovanni della Casa (1503-1556) il quale, apparso sulla scena letteraria subito dopo il nostro personaggio, aveva pensato di onorarlo dando al suo libro il nome di “Galateo”.

Questa tesi però non era condivisa da Benedetto Croce  il quale riteneva che Monsignor della Casa difficilmente avesse potuto trarre il suo “Galateo” dal nome dell’autore dell’epistola a Colonna, “in quanto non risulta che questa epistola avesse avuto una tale diffusione da dover essere conosciuta da Della Casa e quindi avrebbe tratto il nome da Galeazzo (Galateo) Florimonte, vescovo di Sessa”; fino a Baldassar Castiglione (1478-1529).

Nella rosa di questi nomi non possiamo omettere l’umanista Juan Luis Vives (1492-1540) autore de “L’educazione della donna cristiana” (De institutione foeminae christianae), spagnolo di nascita (è stato ricordato tra gli umanisti nell’Art. Carlo V tra Rinascimento, Riforma ecc. Cap. 1), il quale, aveva dedicato il libro alla regina Caterina, sfortunata moglie di Enrico VIII; l’umanista si era dovuto recare all’estero dove era morto in povertà, in quanto l’imperatore Carlo non era mecenate e preferiva le guerre alle lettere.

L'articolo di Croce riguarda tutta l'opera del Galateo, e, tratta in particolare della Educazione (che egli scrive “di aver ben digerito”) sotto l'aspetto filologico, piuttosto che del contenuto, di cui ci dà sporadiche notizie, sì che di questo scritto tutti ne parlano, ma quasi nessuno (abbiamo trovato solo una breve esposizione critica nei “Quattro opuscoli di Francesco Casotti!) ha provveduto a darci un soddisfacente sunto (che abbiamo trovato nella sua traduzione integrale, in Opere inedite di Scrittori in Terra d’Otranto, Lecce 1867)  che riassumiamo, dividendolo in paragrafi per alleggerirlo e così lo offriamo ai lettori.

Nel frattempo erano fioriti diversi testi intitolati al “Galateo” e la cosa non poteva non finire in polemica, innescata da Melchiorre Gioia (1767-1829) con lo scritto il “Nuovo Galateo” e ripresa da Antonio Rosmini (1797-1855)  con lo scritto “Il Galateo dei Letterati” in cui risulta evidente la diversa posizione dei due personaggi, una laica e  l’altra di stretta osservanza religiosa.

Ovviamente evitiamo di commentare molte delle idee del Galateo, maschiliste,  razziste, di attaccamento alla religione, con le sue varie fobie che comunque erano quelle correnti dell’epoca e che, in ogni caso,  al giorno d’oggi si commentano da sé. 

 

 

*) I RE ARAGONESI DI NAPOLI

 

G

alateo era vissuto proprio nel periodo culminante del regno aragonese che aveva sostituito gli angioini ed era durato sessant’anni, iniziato con Alfonso I il quale si era insediato dopo aver scacciato Renato d’Angiò.

Galateo aveva dedicato il suo saggio a Ferdinando-Ferrante, duca di Calabria, figlio del re Federico; poiché ve n’erano stati diversi con quel nome, facciamo una breve rassegna della dinastia (in Articoli v. L’Europa verso la fine del medioevo P. IV, par. Gli aragonesi e lo spagnolismo meridionale).     

Alfonso I (1396-1458), aveva sposato Maria,  figlia di Enrico III re di Catiglia dalla quale non aveva avuto figli, mentre ne aveva avuti tre dall’amante Lucrezia d’Alagno, un maschio, Ferdinando (o Ferrante) che destinerà al trono (la sua maternità era anche contestata in quanto qualcuno lo riteneva figlio di una suora e altri figlio di Gillardona Carlina moglie di Gaspare Revertit) e due femmine, Maria, maritata a Lionello d’Este e Eleonora, sposata a Marino Marzano, figlio del duca di Sessa, portando in dote il principato di Rossano con una gran parte della Calabria; e correvano voci che tra Ferdinando e Eleonora vi fossero rapporti intimi.

Morto Alfonso I, gli succedette il figlio Ferdinando I (1458-1494), non senza contrasti con il papa Callisto III (Borgia,  1455-1458) che sosteneva che egli non fosse figlio di Alfonso e con i baroni che non volevano riconoscerlo i quali chiamarono Giovanni d’Angiò, ma alla fine fu lui a spuntarla.

In prime nozze aveva sposato Isabella Chiaromonte da cui aveva avuto quattro figli maschi: Alfonso (1448-1495) duca di Calabria, Federico  (1452-1504) che sarà re, Giovanni, cardinale e Francesco duca Di Sant’Angelo e Monte Gargano; e due femmine, Beatrice che sposava Mattia Corvino re d’Ungheria; e Eleonora che sposava Ercole d’Este duca di Ferrara. In seconde nozze sposava Giovanna d’Aragona figlia di Giovanni II df’Aragona  da cui nacque Giovanna che sposerà Ferdinando II.

A Ferdinando I succedeva il figlio Alfonso II (aveva sposato Ippolita Sforza che gli aveva dato tre figli, Ferdinando, Pietro e Isabella andata in sposa a Gian Galeazzo Sforza); quest’ultimo aveva vissuto come duca di Calabria da protagonista con il padre (v. in Specchio dell’Epoca:  La Congiura dei Baroni ecc.); erano stati ambedue crudeli e con forti pulsioni erotiche (la dinastia aveva procreato numerosi bastardi che nella tradizione italiana non erano coperti da disonore, anzi,  erano onorati e desiderati e con i matrimoni erano utilizzati per mantenere gli equilibri politici); amanti delle lettere e delle arti, Ferdinando aveva arricchito la grande biblioteca istituita dal padre ed entrambi avevano ricostruito Napoli, elevandola a vera capitale.

Alfonso II dopo un anno di regno, abdicava e si ritirava in convento (1494) in Sicilia; la venuta di Carlo VIII (1494) aveva sconquassato il regno che, appunto, Alfonso lasciava al figlio Ferdinando II  (1495), sì che in questi ultimi cinque anni del secolo si alternarono quattro re (Alfonso II, Ferdinando II, Carlo VIII e Federico); Ferdinando II scacciato da Carlo VIII, si recava (febbraio) in Sicilia dal padre e quando Carlo VIII ripartiva (maggio dello stesso anno), rientrava in Napoli (1 luglio) facendosi incoronare nello stesso giorno; ma, dopo aver scacciato gli ultimi francesi rimasti, moriva l’anno successivo a  ventotto anni (1496) spossato da tre anni di guerre.

Gli succedeva lo zio Federico I (1451-1504) che regnava fino all’arrivo dei francesi, partendo per la Francia dove cedeva i suoi diritti a Luigi XII ricevendo in cambio  la contea del Maine; era l’ultimo re della dinastia aragonese del regno di Napoli assunto da Ferdinando il Cattolico (1505), che nominava Consalvo da Cordova primo viceré.

Federico dalla prima moglie Anna di Savoia, aveva avuto una figlia, Carlotta; in seconde nozze  aveva sposato Isabella del Balzo figlia del principe Pirro di Altamura che gli dava tre figli maschi, Ferdinando (il duca di Calabria di cui parla Galateo), Alfonso e Cesare e due femmine Isabella e Giulia.

Ferdinando fu mandato da Consalvo da Cordova,come abbiamo detto, in Spagna, in dorata prigionia;  Carlo V gli fece sposare Germana di Fois (allegra vedovella di Ferdinando il Cattolico, inidonea a far figli in quanto, amante della buona tavola e delle feste (v. in Articoli: Carlo V ecc. P. III  di prossima pubblicazione) era divenuta obesa e questo ultimo duca di Calabria della casa aragonese morirà in Spagna (1550).

 

 

“DELLA EDUCAZIONE”

 

PRESSO I DIVERSI POPOLI

 

I

l Galateo inizia la sua trattazione esponendo i caratteri dei diversi popoli, ma lo farà in maniera succinta, egli dice, in quanto la sua professione è scomoda e poco adatta allo studio delle lettere.

Come deve essere il precettore: non sia vecchio, non giovane, a giudizio di Aristotele, che vide  costumi e città di molti popoli, che abbia molto letto libri di storici e filosofi; che non sia  spagnolo o gallo (francese) perché essi al di là delle cose proprie, disprezzano tutto il resto: sia greco o latino o greco-romano o italo-greco presso i quali se c’è, si trova la vera sapienza.

Questo genere io cerco, non un uomo azzimato, profumato, con manto, con mitra, inanellato, imbellettato o vestito mollemente.

Comincerò da quel popolo da cui scaturirono  ogni disciplina, ogni umanità e tutte le arti: gli ateniesi  prima affidavano i giovani ai poeti e ai filosofi come a maestri di ben vivere; quindi pensavano a far loro apprendere la musica e occuparsi della caccia e della ginnastica; i romani, approvando e seguendo questi usi, mandavano in Atene i propri figli a erudire la mente.

Gli spartani educavano i giovanetti ai travagli della milizia e alla frugalità, dopo essere stati educati e istruiti nelle umane lettere, ad essi insegnavano a vivere nelle selve, andare a caccia, tollerare il sole e le nevi, non darsi all’amore, non al banchettare, servirsi di pranzo freddo e talvolta cena fredda, correre, lottare, sudare, non mutar d’abiti, non vestirsi mollemente, non ascoltare canti delicati ed effeminati, riportati da Boezio nel proemio della sua musica.

Non lasciavano che le fanciulle languissero nell’ozio, insegnavano loro a esercitarsi alla caccia, di vagare per le selve, Esse non insozzavano la faccia di belletto, ma ardivano di lottare con gli uomini  e fare tutto ciò che era sancito dalle leggi di Licurgo. Le leggi e gli istituti dei macedoni, possono conoscersi da questo particolare:- Quando l’esercito di Alessandro era in guerra di fronte ai persiani, la sua tenda era sempre piena di  filosofi, storici e medici.

I nobili figli dei magnati apprendevano non a giocare, a ridere, a non ingannare e a non rubare, ma prima a filosofare, poi a combattere a cavallo o a piedi, andare a caccia e leggere e scrivere rettamente; essi apprendevano a far la guerra non per avarizia e per il recupero di spoglie, ma per la gloria e per la fama.

ortis   Alessandro fece crocifiggere o mettere sul palo tanti presidi di province che esercitavano le loro cariche con superbia e avarizia.

Non solo i macedoni ma i babilonesi e i persiani perdonavano alle genti vinte  e disfatte, restituivano i regni ai monarchi sconfitti, anche se ribelli; e i romani quante città avevano restituito alla primitiva libertà e quanti re restituirono ai propri regni? Ridussero galli e spagnoli dalla innata ferocia a più miti costumi di vita, in modo che non poté accadere di meglio che esser vinti dai romani che a costoro concedevano anche la cittadinanza romana e innalzavano alla magistratura e agli onori: certo esser vinto dai romani o servire i romani altro non era che comandare.  

Tutta la Spagna era dei romani; quante città furono edificate dai romani, eppure (oh ingratitudine e demenza!) gli spagnoli vogliono piuttosto vantare la fiera origine dai goti che dai romani 

 

I RE STRANIERI

E I PAPI

 

R

e stranieri furono in Roma; all’impero romano furono ammessi non solamente i latini, ma i piceni, i salentini (il filosofo Antonino trasse da Lecce la discendenza materna), ma quanti spagnoli, galli, africani, greci, pannoni, goti; presso di noi, invece nessun cittadino è chiamato a regnare  ma lo cerchiamo sempre fuori, tanto siamo teneri con gli stranieri che ci lacerano e divorano.

Abbiamo avuto re di Germania, di Gallia, d’Ungheria, d’Aragona e se piace ai pontefici i quali dopo la caduta dell’impero d’Oriente, anzi romano, quasi sciolti da ogni soggezione, han mandato in rovina ogni cosa, avremo anche zingari.

Il sommo pontificato è nostro, eppure ne facciamo partecipi gli estranei, per non dire i barbari; Dio volesse che romani fossero i pontefici, come un tempo! Dio volesse che non mai da franchi e goti fosse stata occupata quella sedia dovuta agli italiani! Dio volesse, che quell’inconsapevole e avaro consesso non avesse mai creato o il popolo romano avesse accettato goti o franchi; non so chi fosse quel profano pontefice gallo inurbano e inclemente che avesse trasportato la Santa sede da Roma in Francia [Clemente V, Bertrand de Got, 1305-1314].

I pontefici galli introdussero costoro per la prima volta in questo regno e crearono quel tiranno che fu Carlo I [d’Angiò]  il quale comandò che fosse avvelenato san Tommaso [anche in D.C. Purgatorio, XX,68-69 ndr.] il più dotto dei cristiani perché non scoprisse nel Concilio i suoi misfatti.

Callisto [III, Alfonso Borgia 1455-14598] spagnolo, preso tal nome per antìfrasi, si sforzò di espellere dal trono Ferdinando figlio di Alfonso, il quale da basso luogo lo aveva innalzato a tanta altezza e tentò di disertare l’Italia; una morte tolse costui che macchinava tanti mali; quel che lui non poté, fece Rodrigo, nipote per parte di fratello, cui neppur la potenza di Giove irato e dei disprezzati Pietro e Paolo valsero a spegnere.

Costui, prima aizzò i Galli sotto la condotta di re Carlo, la cui memoria per giudizio di Dio è assolutamente spenta, poscia radunò galli e ispani o piuttosto franchi e goti che congiurarono a nostro danno. Dallo spagnolo Callisto ebbero origine i mali che soffriamo.

Ora abbiamo Giulio [II, della Rovere, 1503-1513], nipote del gran Sisto [IV della Rovere, 1471-14484], speriamo che egli possa togliere la nostra vergogna e soccorrere alle nostre sventure, perché è italiano.

Non vi fu mai papa straniero senza che l’Italia fosse  afflitta da grandissimi mali; noi amiamo gli stranieri, essi ci odiano e ci invidiano. Forse la causa per cui tra latini e barbari esiste un odio continuo e profondo è che educazione e costumi non si accordino bene tra di loro.

 

LA CIROPEDIA

 

L

’educazione dei persiani potrai conoscerla dalla “Ciropedia” (*) di Senofonte che militò in Persia; in quell’opera egli introduce l’uomo per bene e il buon re e consiglia  all’illustre giovinetto, suo allievo, di leggerlo e di seguirne i precetti, e aggiunge: Platone afferma che vi erano quattro alti personaggi ai quali era affidata l’educazione  del primogenito del re dei quali il primo lo istruiva sul culto degli dei e quindi nella religione di Zorosatro; un altro lo educava alla temperanza, affinché non fosse versato nella cupidigia, non le ricchezze altrui, non la proprietà, non i servi, non le mogli, non i regni; l’altro lo educava alla forza di carattere, quindi al disprezzo della morte e all’amor della gloria; il quarto, a buon diritto, presso di loro, nulla si puniva più severamente della menzogna.

A mio giudizio, precisa Galateo, non vi è niente di più indegno per un uomo che mentire e fingere: chi osa mentire e fingere, credi a me, non vi è cosa malvagia che egli non oserà. Solo per questo era statuito che si potessero prendere le armi  solo per difendere la verità. Ma ora, aggiunge Galateo, con la venuta dei galli e degli spagnoli è così in uso mentire, ingannare che chi non sappia farlo non si considera né civile né prudente [non a caso alcuni anni dopo (1641) Torquato Accetto pubblicava “Della dissimulazione onesta” con cui, suggerendo il “viver cauti” giustificava l’ipocrisia che egli considerava a fin di bene!].   

L’educazione dei cartaginesi (**)  era la menzogna, le frodi, i motteggi, le astuzie, le irrisioni, gli inganni, le crudeltà e ad esempio di Annibale, la distruzione delle città alleate ed amiche; niente di vero, niente di santo, nessuna religione, nessun timore di Dio, nessun giuramento, una perfidia più che punica. Con queste arti i cartaginesi spesso molestarono i romani e perirono e non giovarono le astuzie e gli spergiuri; era gente fedifraga, scaltra, bilingue e  non resta alcuna memoria se non quanto ci è tramandato da scritti latini e greci; la lingua punica e le costumanze sono spente, appena rimangono le vestigia della grande città.

Roma, quantunque sia logorata dalla vecchiaia, per la sua antica probità, giustizia, schiettezza, mal sopporta i presenti delitti; è serbata da Dio a essere guidata a destino migliore a costumi più santi. La lingua, le leggi, il giure e l’impero romano (inferiscano pure le nazioni barbare, gli unni, gepidi, quadii, cimbri, alani, vandali, goti, teutoni, galli e ora franchi e spagnoli) tanto dureranno, quanto durerà questa terra e quelle stelle.

Della educazione dei romani non dirò niente in quanto tutti sanno di quanta cura avessero di fare apprendere ai giovinetti prima le lettere etrusche, poscia le greche e latine e di richiedere maestri dall’Egitto, dalla Cilicia e da Marsiglia che in quel tempo era abitata da greci. Erano i romani così desiderosi d’istruirsi che per tutto il mondo andavano in cerca di chi li ammaestrasse, eppure furono essi, i romani, che soggiogarono nazioni efferate e indomite e l’intero orbe.

I greci, i macedoni, i romani  erano soliti passare dalle lettere alle armi e quali essi fossero, lo attestano i monumenti letterari.

 

 

*)    Ciro era indicato da tutti gli educatori come modello da imitare.

**) Galateo disprezza l’educazione dei cartaginesi i cui difetti erano passati agli spagnoli (ai quali non risparmia di mostrare tutto il suo odio!) attraverso i mori, contrapponendola alla virtù romana che, mentre la lingua e le costumanze puniche sono spente, essa si conserva attraverso il diritto e l’impero di Roma e dureranno per tutto il tempo in cui durerà qui la terra e di là le stelle (quamdiu erunt haec terra et illa sidera).

 

 

 

I NOSTRI TEMPI

 

 

P

er non parlare degli antichi, tocchiamo i tempi nostri.  Sono uomo di franca schiettezza, soglio lodar molte cose degli stessi nemici, condannarne molte nei nostri.

Il re d’Egitto che chiamano sultano, mantiene soldati a cavallo che per la loro disciplina comandano sui liberi che si lasciano comandare per ignavia; egli affida i ragazzi, ai maestri i quali insegnano la scrittura araba o saracena e i precetti e la religione di Maometto; insegnano il silenzio, a non ciarlare, a non bere vino, a cavalcare, a tirar d’arco, a obbedire ai superiori, a combattere virilmente [erano i mamelucchi che conquistarono il potere nel 1250, dopo la dinastia ayyubita di Saladino v. in Mille anni  dell’impero bizantino Cap. VIII, P. II].   

I turchi, che oggi sono i più potenti in mare e in terra e che hanno il dominio dell’Asia e dell’Europa, scelti dei fanciulli tra i popoli vinti, li ammaestrano nell’agricoltura secondo il costume degli antichi romani e dei fidalghi che menano la vita sui monti e li addestrano a  diverse arti; poscia li mandano ai martiri della milizia; consigliano ad essi la religione e a mantenere il giuramento; puniscono di morte quelli che dicono cattive parole contro Dio; vietano di spergiurare, di mentire, di giocare ai dadi e alla sorte, di rubare; il furto si considera il più grande dei delitti; vietano nell’esercito di avere vino e baldracche; credono cosa inutile aver lunghi discorsi con donne, perché stimano, non so se correttamente, doversi tener le donne per diletto e in camera, non nei consigli e nelle adunanze; vogliono che ritirate in casa, secondo l’antico costume  dei greci, badino a filar lana e seta nel gineceo, lontane anche dalla vista degli uomini familiari.

Che hai a che fare tu, uomo forte, con le donne? A che t’intrattieni di notte a colloquio con le fanciulle? Quali esempi, quali ammaestramenti gli uomini possono prendere dal frequente e assiduo conversare con le fanciulle?

Siano , o giovani,  i nostri amori sollievo non fine della vita. Ma che dico, giovani,? Oh spettacolo! O che faccia, degna d’essere effigiata; veder vecchi che si lisciano, che si ornano di chiome altrui o proprie, tinte e nereggianti, profumati di unguento, con mitre intessute a oro, ornati di collane o, per dirla più rettamente, incatenati e cinti di spada, cantar la notte e talvolta  anche il giorno innanzi alla porta della signora e rimpiangere i vecchi amori. Oh vecchi insani, quali esempi voi date ai giovani, quali esempi son questi di libidine e vanità di barbari?

Uno stolto monaco Gamberto (*) non so di qual ordine o di qual mandria, accusa le fanciulle italiane di rustichezza e severità, perché non sanno, come le spagnole, blandire gli uomini e usar di dolci carezze e lascivie e in tutti i modi eccitare la venere languente e ritrarre i giovani da turpe vizio; egli, quel monaco impudente, col nome di un falso delitto, contamina la gravità e la temperanza italiana per scusare la leggerezza e vanità della sua gente.

Questo aragonese cronista di gran levatura (come si appella, ma io lo dirò cornista) ignorò che in tal modo non si tolgono ma si mutano i vizi. Dio volesse che le matrone e le fanciulle italiane non avessero mai appreso i costumi spagnoli! Perché sarebbero più vereconde,  più ossequienti agli uomini e meno superbe.

Mi vergogno di dirlo, ma lo dirò perché è vero; prima della venuta degli aragonesi, nell’aula dei magnati di questo regno, non vi erano fanciulli a prezzo, né tenuti in custodia; era ignoto tal vizio  prima della venuta degli stranieri.

Ma torniamo al nostro proposito.

Oh Dei immortali! Quali esempi se non donneschi, possono trarre gli uomini dalle donne. Già apprendemmo noi italiani, specialmente noi che abitiamo questo regno lungamente oppresso dalla tirannide di tutti i barbari, noi così docili alle male arti come alle buone a portare vesti dipinte, fimbrie indorate e gonfie maniche, berretti a rete e indorati, maniglie, legacci, cinti, gioielli alle orecchie e tutto il mondo muliebre e chiome altrui; dirò, e l’ho udito da molti, come insozzano la faccia, il mento, il collo, oh tempi oh costumi, di belletto, di minio, ciò che è turpe cosa per le donne, cui più lice.

Taccio alcune turpitudini che Gauberto non tacerebbe e che un tempo, secondo la testimonianza di sant’Eusebio e Aristotile, erano i uso presso i Galli e ora non aliene agli spagnoli. Non l’Oronte scorre verso di noi ma il Beti e la Senna; l’Oriente corruppe i costumi dei nostri maggiori; i nostri  poi, l’Occidente.

Imperassero ai re e che i latini servissero i barbari.

 

*) *) Si trattava del monaco spagnolo Fabrizio Gauberto (nel testo lo indicheremo a questo modo), autore della Cronaca d’Aragona” il quale accusava le fanciulle italiane di non saper blandire gli uomini; Galateo si scaglia contro il monaco, coprendolo di contumelie e rimproverando agli spagnoli la decadenza dei costumi, il lusso smodato e ridicolo, la schiavitù, la pederastia (che in questo caso è pedofilia), che Galateo riteneva sconosciuta prima della venuta degli spagnoli, facendo riferimento all’uso dei ragazzi e a tutte le specie di corruzione che essi avevano introdotto nel regno di Napoli.

 

 

I NOSTRI GENITORI

 

 

S

econdo il patrio costume, i nostri genitori mandano noi italiani da maestri che ci insegnano ad astenerci dal rissare, rubare, mentire, simulare, spergiurare,  tendere insidie, farsi sicari, lenoni, pirati, rapaci, voraci, beoni, impudenti  o audaci, ma di attendere allo studio  delle lettere greche e latine, imparar di musica, esercitar la ginnastica, cavalcare, andare a caccia, badare alle sostanze domestiche, non darsi alle lussurie, e a inutili e vani discorsi, non esser parolai, non versipelli, non scaltri, non argutelli e sfrontati, non furbi, non fallaci, non astuti,non maliziati e infinti; ma prudenti, religiosi e pii, non ipocriti ma modesti, umani, verecondi ed erubescenti, veritieri, tardi a parlare, semplici, saggi e istruiti dagli esempi dei gentili e dei cristiani del nuovo e vecchio testamento.

Ma non so perché queste arti  non giovarono a noi che serviamo gli stranieri, assai da meno per ingegno e a cui soprastiamo per natura. Noi ci inchiniamo a chiunque voglia vincerci e se anche la vagabonda, povera, imbelle genia degli zingari ardisse d’invaderci, noi cederemmo.

Solamente siamo forti e audaci tra noi stessi, infingardi e imbelli contro gli stranieri.

Oh la più triste, oh la più dannevole fra tutti i mali che è la discordia e la smodata bramosia di libertà. Voi siete la cagione di tanti malanni; voi fate che i servi imperassero ai re e che i latini servissero i barbari.

 

LA DISCIPLINA

DI GENOVA, FIRENZE,

ROMA, VENEZIA

 

 

D

ella disciplina dei genovesi non so dire; quella potentissimaa città, per le intestine fazioni è sempre soggetta agli stranieri: non so se sia repubblica o libera o serva. La sua polizia non ancora si è trovata nei libri; quella potentissima città, perisce per i suoi consigli.

Firenze, anch’essa cultrice di studi liberali e di eletti ingegni, mal si serve delle sue forze, non so se in lei sia mera o occulta tirannide o libertà, però suole obbedire ai suoi cittadini. Piace la urbanità e liberalità, gl’ingegni acuti e versatili, l’amicizia, l’ ospitalità, la gratitudine, l’umanità e un certo soavissimo conversare; però mi meraviglio, perché, come il resto d’Italia, vengano meno nelle cose loro. Dirò, male è servire, ma minor male è servire i suoi che gli stranieri e i barbari, come noi sogliamo.

Roma un tempo a capo del mondo, ora sentina  di delitti, serve l’ignavia, la gola, le rapine, la libidine e tutte le scelleratezze. Essa è officina di tutti i mali, nella quale i servi dei servi dominano e arricchiscono, ai quali nostro Signore comandò di esser poveri e di portare il sacchetto e la bisaccia.

Nella sola città di Venezia  è l’immagine  dell’antica libertà d’Italia; è spento ovunque lo spirito d’Italia, ma solamente in quella città vive; e facciam voti che lungamente viva.

Già a quest’ora l’Italia o sarebbe venuta in balìa dei Turchi o non esisterebbe affatto; già i pirati, nemici dell’uman genere, sarebbero padroni d’ogni cosa e non mai le province cristiane vi sarebbero in oscurità dai saraceni, se la città di Venezia non si mantenesse in quella antica libertà; quell’impero antico da oltre mille anni  dura senza mutarsi.

Quella città favorisce in Italia la disciplina militare e le arti marittime di guerra e di commerci, città nemica ai pirati e predoni.

Gli spagnoli e galli, non senza licenza dei loro re, esercitano impunemente la pirateria e riducono gli uomini a perpetua servitù, ciò fu ritrovato prima dai marsigliesi, poscia dai catalani. Quella è città che custodisce le lettere greche e le latine e gli studi delle arti liberali e tutte le discipline e le arti.  

Dovunque è morta l’Italia, solo in questa città vive e vivrà e da quella, io prevedo, sorgerà la libertà d’Italia; ivi i figli dei nobili e dei cittadini (nobili perché i veneziani possono vantare l’origine della nobiltà da oltre mille anni, secondo i precetti di Platone), attendono allo studio delle lettere e dell’aritmetica; non vi furono più lettere in Atene che oggi in Venezia.

 

SIANO ANGIOINI

O ARAGONESI

 

G

alateo, dopo aver chiarito a Crisostomo che egli era tratto non dall’affetto o dall’impeto dell’animo, ma dalla verità e dall’amor di patria e dal nome latino, prosegue.

Siano angioini o aragonesi, Dio disperda entrambi che ci trassero a rovina. Il Galateo, con suo grave danno e pericolo, seguì le parti di Aragona, partecipe dei pericoli e non dei premi. Ma è più italiano che spagnolo, o goto; più gli sta a cuore la Puglia e la Giapigia che la Lusitania o la Betica; più il Po e il padre Tevere, l’Ofanto e il Galeso e il dolce Idro, che Beti e il Tago una volta aurifero, ora, mancate le vene d’oro, ferreo per noi e quegli  orrendi nomi, il Reno, l’Arasse, il Rodano, la Loira, la Senna e la Garonna.

Se vuoi sapere quello che io senta intorno alla educazione dei galli e spagnoli o piuttosto  dei celti e iberi o franchi o goti, niente di buono, o Crisostomo; tengono in non cale le lettere, né si confanno ai nostri costumi, né ai precetti dei filosofi, né di nostro Signore che tanto ebbe in odio gli ipocriti.

Entrambi sono ipocriti, né presso altre genti regna tanto l’ipocrisia, quanto presso i goti e i franchi, né questi sono gli antichi galli e spagnoli cui i romani, tolta quella barbara ferocia, informarono ai propri costumi; ma sono goti franchi; quelli vennero dalla Scizia, questi dalle inaccessibili paludi di Germania. Fa meraviglia: gli spagnoli vogliono piuttosto appellarsi goti, che antichi ispani o romani.

I giovinetti dei galli menano oscena vita per bettole e taverne, luridi, coperti di cenci, disadorni, discinti, immondi, sudici, senza istruzione, senza maestri, mendicando una moneta da questo e da quello per comprar vino. Questa è educazione da schiavi.

Quali uomini, crederai, saranno quelli che provengano da tali fanciulli? Dei nostri spagnoli  posso dire qualcosa? Ma parlerò con quella libertà che soglio, e di cui essi usano nei loro motti che dicono donarii  e di cui si serve contro tutta l’Italia  quel monaco temerario tanto erudito quanto gonfio di superbia gotica e zeppo di ostentata presunzione fuor di proposito che chiamo Gauberto  e non Fabrizio per non macchiare il santo nome di Fabrizio con un suono barbaro e orrendo; e, dopo aver detto di vergognarsi di questa bestia, arrogantissima per difetto di razza, critica la sua storia, se pure sia da considerare storia e non maldicenza, da leggersi nella bottega di un barbiere o in quella di un ciabattino.

 

 

                                              

I GOTI

AVEVANO  INVASO

LA SPAGNA

 DOPO ESSERSI

CIVILIZZATI IN ITALIA

 

 

G

alateo scrive che quel monaco (Gauberto), che egli ha tanto vituperato, è stato l’unico degli spagnoli che nel riprendere i costumi italiani dica che i goti, gente feroce della Scizia, seppur lo fecero, erano stati prima in Italia, dove avevano dismesso i loro barbari ed efferati costumi e divenuti più umani, erano passati nella Gallia narbonese, chiamata Gotia, e poscia erano entrati in Spagna dove occuparono con la forza le province romane; essi lodano e imitano  i galli, hanno in pregio e ammirano i mori dai quali avevano preso vesti e berretti e il modo di cavalcare e in parte avevano corrotto la lingua romana con l’arabica.

E prosegue.

Quanto poi se ne compiacciano (altrettanto me ne viene schifo), quando dalla strozza profonda escon fuori dei suoni duri e saraceni. Si tiene presso di loro per fidalgo e paladino, chi sappia la lingua di Algarvia, villano chi sappia il latino, eppur essi appellano romana la loro lingua.

Appresero dai mori la cura del corpo, l’esercizio, i giochi, le varietà delle vivande e dei sapori; e ardiscono quegli uomini da nulla di sprezzare la gravità e la prudenza italiana? Stimano essere opera virtuosa perseguitare gli italiani con maldicenze, contumelie e ingiurie, per non dir peggio.  

Ma torniamo al nostro discorso. 

 

 

L’EDUCAZIONE DEI

NOBILI SPAGNOLI

 

 

S

ento dire che i magnati spagnoli e goti, nonché i cavalieri e nobili mandino i loro figli  presso cavalieri e nobili assai inferiori. Qual cura uno può prendersi dei figli altrui quando gli stessi genitori spesso non badano punto ai loro nati?

Quelli usano dei fanciulli come dei servi e costringono gli ingenui a praticar con quelli che in dialetto volgare chiamano rapaci e con ragione, ed essi diventano rapaci, come noi sperimentiamo.

Questa educazione elevano al cielo gli Spagnoli tanto larghi di lode per se stessi. Che riescano tolleranti di fatica, scaltri, infinti, sfrontati, argutelli, doppi, audaci, lo confesso; più saggi, più verecondi, più modesti e migliori, lo nego.

Siffatta educazione è di servi non di nati liberi, di Davo non di Panfilo. Presso Menndro, come riferisce il nostro Galeno, un servo scaltrito si doleva che in quel giorno niente avesse fatto di grande perché non aveva ingannato il padrone. Penso che presso di essi [gli spagnoli] si ha in pregio il cicalare, raggirare, ingannare, deludere, rubare, mentire senza arrossire e simulare e dissimulare e aventi all’aula regia, carpire qualche cosa nottetempo che essi con vocabolo più onesto, mutata una lettera, dicono prendere; e questi pregi che non dirò in latino ma in spagnolo, chiamano disinvoltura, cioè versatilità, lasciar motti e lazzi contro questi o contro quelli, andare in busca di danaro da questo o da quello per giocare e la cosa tolta al gioco, tenere senza vergogna e trascurar le lettere, come  tu dici ciò che è il più brutto di tutti i mali.

 

GLI SPAGNOLI

CREATI DALLA

 MORCHIA

 

 

G

auberto scrisse che nessuno dei suoi re conoscesse le lettere; niente può essere di buono, cioè da viver bene e beatamente, dove si disprezzano le lettere, dove i dadi, gli scacchi, le carte, gli inganni, il far da pirata, da giardiniere, da sicario, da ruffiano, da ladro, si tengono per passatempo, anzi in conto di virtù e di merito; per queste cose non si perde la nobiltà; ma a causa di una demenza creduta onorevole, si perde quando si sappia scriver bene e intender bene, e questo è poi proprio non meno della spagnola che della gallica nobiltà o per dir meglio, della gotica e della franca, l’ignorare le lettere, anzi, l’avere in dispregio e ludibrio la erudizione e scrivere le carte con gli indecifrabili caratteri gotici in forma di obelischi, ancore e uncini. Quando io li vedevo, poiché non ho mai potuto imparare a leggerli, mi sembrava di vedere i caratteri di quei fenici che primi ammaestrarono a segnare con rozze figure il suono della voce.

Alcuni spagnoli che, a preferenza degli altri hanno un tantino di cervello, io credo discesi non dai goti e spagnoli ma dai romani; Giovanni Mena [traduttore di Omero]  e il Villena [Enrique] nelle fatiche di Ercole [Le dodici fatiche d’Ercole] e il Lucena [Juan]  nella Vita Beata (*), esecrano i costumi dei fidalgi di corte i quali stimano che quella grossolana aspirazione degli arabi e i caratteri gotici, come gli stessi spagnoli li chiamano, della lunghezza di un mezzo piede, appartengano alla fidalgia e che sapere poi parlare latino, sia cosa da villano e ignobile.

Per cui, assai argutamente suol dirsi che Dio avesse creato i persiani, egiziani, greci e italiani dall’olio, i galli e gli spagnoli ultimi fra gli uomini, dalla morchia che era restata nel fondo.

 

*) Le opere di questi autori spagnoli, al tempo di Galateo erano conosciute specie nel napoletano dove molti avevano dimestichezza con questa lingua.

 

 

EDUCA L’ILLUSTRE

GIOVINETTO

AI PRECETTI GRECI

E LETTERE LATINE

 

 

N

on tralascerò di indicare l’esempio del nobile Nomio Dacampo, governatore della Rocca napoletana, spagnolo, o piuttosto come credo romano della romanità di Spagna, vale a dire di quei romani della nazione spagnola, come furono tutti i poeti e tutti gli imperatori, il quale affidò i suoi figli al nostro Summonte, discepolo del padre Pontano, pregandolo che prendesse di quei fanciulli la più gran cura che potesse aggiungendo che si sarebbe considerato fortunatissimo se avesse potuto portare con sé i figli istruiti nelle lettere e completi di educazione e disciplina italiana.

Tu, o Crisostomo, se sei tal uomo come ti ho sempre avuto in pregio, educa l’illustre giovinetto  che prendesti da fanciullo e alimenti come nutrice, nell’insegnamento italiano, nei buoni precetti e costumi greci, nella disciplina e lettere latine, non già nelle galliche e spagnole; non ascolti le parole dei cortigiani che si dicono galanti, ma del Mena, del Villena, del Lucena, personaggi prudentissimi.

Sia modesto e grave, serbi il decoro conveniente all’età e al grado;  mi piace piuttosto la verecondia e l’erubescenza nei fanciulli che l’audacia, la sfrontatezza e l’essere arguto.

Ma, perchè scriverti queste cose? Mando, come diciamo in Puglia, il sale a Sepiunte o i cani ad Atene; né quella benigna natura e quel felice ingegno ha bisogno dei nostri insegnamenti, quantunque sia i campi sterili che i fecondi abbisognano di coltura e più i fecondi perché come sogliono produrre abbondanti biade, così erbe inutili e nocive che è necessario recidere colla falce filosofica, cioè con i santi ammonimenti.

Dice Platone doversi avere maggior cura dei giovinetti che sono di eccellente ingegno che di quelli che sono più ottusi. I pigri come a virtù, così son lenti ad appigliarsi ai vizi, ma i solerti e di animo vivace sono corrivi a entrambi. Perciò Aristotile  disse: l’uomo sciolto da ogni legge e giustizia è peggiore di qualunque bestia, perchè ha molte vie a malfare.

Perché le straordinarie virtù sogliono talvolta andare a paro di vizi straordinari come dicono di Annibale?

Sia lungi da me  ch’io pensi così dell’illustre duca, il quale  da natura è talmente conformato a virtù da odiare tutti i vizi; ma a me l’età mia è di scusa, a lui la giovinezza; egli è adolescente  che mena la prima vita fra le delizie spagnole; io son vecchio e poco filosofo e che se non moltissimo, più di lui ho letto e veduto.

 

 

RICEVESTI QUEL

GIOVANE PRINCIPE

ITALIANO

RENDILO ITALIANO

 

 

A

lla sua età torna ad onore, quantunque non ne abbisogni, esser ammonito da un vecchio. Te poi voglio pregare  e scongiurare mille volte, rendi a noi quel giovane principe, quando parrà conveniente ai re santissimi, tale quale lo ricevesti.

Italiano lo ricevesti, rendilo italiano, non spagnolo; sappia egli parlar cartaginese e gallo, se gli piacerà; è lodevol cosa conoscere come i costumi così la lingua  di molte genti, non però anteponga la barbarie gotica e di Algarvia alla latinità; ma usi sempre fra i suoi della nativa lingua, onde, dalla gravità e semplicità dell’idioma italiano non passi a suoni stranieri e a lepidezze spagnole, a garruli blandimenti, a motteggi e scostumatezze.

Apprenda latinamente quel che gli consigliano i più saggi degli spagnoli, quantunque lo deridano i galanti, come si appellano. Perché è cosa indegna conoscere le lingue straniere (e mi vergogno a dirlo), anche l’arabica e ignorarsi da un nobile cristiano o da un principe, la latina nella quale si leggono gli evangeli, le profezie e l’epistole dei santi e divini insegnamenti del nuovo e vecchio testamento e i fatti ancora dei gentili e dei cristiani.

Gli sia il natio parlare severo e non blando, ovvero finto o interrotto, non gonfio e pieno di jattanza, ma grave, aperto, semplice, verace; né sappia mai simulare e dissimulare, né mentisca per gioco o sul serio: non vi è pe4ggior delitto che mentire ai suoi o ai nemici. E’ scritto, la bocca che mente uccide l’anima.

Sappia che Dio è il padre della verità e come dice Aristotile, il principio di tutti i veri [Juan; come si vede la Scolastica aveva fatto di Aristotile e di Platone, che erano pagani, dei cristiani ndr.] il diavolo, della menzogna.

Chi dice il vero è figliuolo di Dio, chi il falso, del diavolo; in difesa della verità gli uomini santi, i profeti, gli apostoli, i martiri, i filosofi han subito anche la morte. Nella vita niente è più santo della verità la quale come è gratissima ai buoni è tenuta in odio dai malvagi e ignorarla ha bandito ogni virtù, prima la giustizia, poi la fede, la carità, la concordia, la società, l’amicizia, la liberalità, la probità e la pietà. Se il tuo allievo voglia viver bene, come nella prospera così nell’avversa fortuna nella quale ora si trova, è opportuno si comporti da filosofo.

Ascolti Alessandro il quale scrisse al suo maestro Aristotile voler piuttosto sovrastare gli altri nella scienza e nella cognizione delle cose, che nel comando. Legga la lettera di suo padre Filippo, il quale confessa che non tanto fosse compiaciuto della nascita di un figlio desiderato, quanto che ciò fosse accaduto al tempo del filosofo Aristotile, dal quale potesse istruirsi e erudirsi. Non ascolti i galanti, ma legga i poeti, gli storici, i filosofi, i giureconsulti, i medici, i teologi e non quegli ipocriti simulatori i quali desiderano l’episcopato che è pur buona cosa e come l’abbiano ottenuto, permettono nonché vietino ai principi ogni cosa giusta o ingiusta.

 

 

L’INCLITO ADOLESCENTE

SI GUARDI DALLE

MENSE APPARECCHIATE

ALLA MANIERA

ARABA O SPAGNOLA

 

 

S

i guardi l’inclito adolescente dalle mense apparecchiate secondo il costume arabo o spagnolo o da  soverchia diligenza nel trinciar uccelli, nel gettar sale, nello spiegare il tovagliolo, nel porgere il bicchiere. Voglio piuttosto la rusticità e una mensa pulita ma non in punto; voglio piuttosto la frugalità che il soperchio e questa vastissima arte e coteste usanze ridicole e femminee.

E’ pur misera, come dice non un goto o uno spagnolo, ma un romano nato in Spagna, il sapientissimo Seneca, è pur misera la vita di quelli che passano la vita in tale ufficio. Ma più infelici quelli per i quali non ha sapore la gallina se non tagliata con grande destrezza e con assai diligente e fine arte [dello scalco ndr.] da un coltello acutissimo e non affatto spuntato.

E dicono gli spagnoli che dopo la loro venuta noi imparammo da essi molte cose. Ho seguito anch’io, come i nostri, le parti spagnole o piuttosto gotiche, ma Dio volesse che le navi spagnole non avessero mai toccato i nostri lidi.

Gli Dei immortali che cosa gli insegnarono? Non le lettere, non le armi, non le leggi, non l’arte nautica, non il grande commercio, non la pittura, non la scultura, non l’agricoltura, non alcuna ingenua disciplina, ch’io sappia; ma le usure, i furti, i servi da galera, i giochi, il ruffianismo, gli amori da bordello, il far da sicarii, il canto effeminato e lugubre, il comporre le vivande all’uso arabo, la ipocrisia, i letti spiumacciati e deliziosi, i ricercati profumi e quell’acconcia maniera di servire a tavola e l’arte dello scalcar gli uccelli; con queste e tali vanità corruppero la severità dei nostri costumi.

Se saremo sobri, ci riusciranno di grato sapore gli uccelli in qualunque modo si taglino. Non cerchi altri modi di stuzzicar l’appetito, se non il digiuno e la fatica. Con nesun’altra medicina si eccita meglio l’appetito che col digiuno e il travaglio.

Sono un vecchio a sessant’anni e molti libri ho svolto di  moderni e antichi medici e per quanto ho potuto apprendere da me stesso ho trovato che questi o sono i soli principali mezzi per conservare la sanità, la continenza cioè e l’esercizio; questi sono la medicina non solo dell’anima ma anche del corpo.

Perciò si narra che quel grande eremita di Antonio, avesse vinto i demoni con l’astinenza e la pazienza; con la tolleranza e l’astinenza è adagio greco. 

Ippocrate, il dio della medicina, servendosi di un breviloquio, come riferisce Galeno, comprese in poche parole tutta l’arte del conservare la salute, dicendo “l’arte di star sano consiste nel cibarsi come di soppiatto ed esser desto al lavoro”; il lavoro dunque preceda il cibo al mattino e a sera; nessun cuoco è migliore della fatica. Alessandro, che  alla madre, sollecita, gli aveva mandato degli ottimi cuochi, disse di avere come ottimi cuochi, per pranzo le veglie notturne e i pensieri, per cena i travagli del giorno e stimava essere da re sudare nella fatica, o da servo e codardo marcir nell’ozio.

 

 

I LIBRI DEI CUOCHI

HANNO PIU’ MISTURE

DI QUELLI DEI MEDICI

 

 

N

ella mensa abbia i primi e ultimi segni dello zodiaco, vale a dire l’ariete e il toro e nei giorni religiosi fugga i pesci del mare e dei grandi fiumi e quelli che vivono negli stagni, quantunque siano lodati dai Galli e nei soli giorni festivi abbia uccelli dell’aria e anche della terra poiché porrei molti uccelli tra i volatili e i terrestri. Sia contento, specialmente quando va a caccia, di vile companatico, di pane, di cacio e carne fredda, di aglio, cipolle, rafano e nasturzio, ulive, uva passa, noci e pomi.

Diranno gli spagnoli questo è il rustico e antico pranzo dei persiani e come dice Platone del verro, è egregio, nobile e virile.

I galani goti rideranno di Galateo, ma io di rimando dirò quel motto veramente romano: vorrei che tu rendessi odor di aglio [si diceva che quando arrivava l’esercito romano, a distanza si sentisse odor di aglio! ndr.] .

La regola dei medici è fuggi le vivande composte e cibi diversi nella stessa mensa, la mistura dei quali è difficile da tollerare, perché hanno più misture i libri dei cuochi che quelli dei medici.

Accusiamo gli antichi principi che avevano in cucina il tetrafario e il pentafarmaco; noi abbiamo i penticontafarei e gli ecatofarmachi e i preparati di mirra e cicuta e quelli chiamati cibi bianchi, causa certissima di crudità i quali altri rettamente si chiamerebbero piuttosto cerotti che vivande e questo ancora ci insegnò la Spagna, maestra di voluttà.

Fugga la crudità e la sazietà madre di tutti i malori perché, come ho detto, nessun’altra via conduce meglio alla sanità che la frugalità e l’esercizio fisico; non vuoi ciò credere da sano, lo crederai da infermo.

Tenga dei medici, non per ambizione, ma per guardar la salute; molti principi hanno presso di loro dei medici e dei santi uomini per ostentazione, affinché siano tenuti per  temperanti e dabbene.

 

SORGA SUL  PRIMO

 MATTINO ONDE

NON PERDA IL CANTO

DEGLI UCCELLI

 

 

F

ai che il giovane re ami la verità, non l’ostentazione, la religione, non la superstizione, il viver retto e franco, non la ipocrisia di cui son pieni non solo gli alti palazzi, ma anche le celle dei monaci. In questo sarebbe da ammonirsi perché praticherebbe con gente che con ogni studio va dietro alla simulazione e alla ostentazione.

Al mattino, preghi con cuor puro, non con ambizione o ipocrisia, poi legga e lavori, indi pranzi con parsimonia e frugalità; la cena sia più lauta ma con temperanza, non sino all’eccesso; nessun pranzo, nessuna cena sia senza travaglio; spesso si lavi e usi le fregagioni; sia contento di poco cibo e di poco sonno, e questo, notturno, perché la notte è destinata al sonno, il giorno al lavoro e alle veglie.

Sorga sul primo mattino onde non perda il canto degli uccelli e la grata bellezza dell’aurora. La primavera è la parte più gioconda dell’anno, l’aurora poi del giorno; chi è colto in letto dal sole  che sorge, sappia  che ha perduto l’intero giorno; mai mi sopporteranno i fidalgi che leggeranno queste cose.

Chi ha passato insonne la notte fra  delizie e amori, trova assai grata e dolce la quiete del mattino: Ma, nel modo che ho detto, si provvede alla sanità del corpo e dell’animo e ancora alla caccia. E’ tratto dai pescatori il proverbio che può volgersi ad altri usi: Chi dorme non piglia pesci. L’aurora è il tempo nel quale il gallo desta noi inermi, la tromba e i corni destano i soldati e i cacciatori.

 

FUGGA I LUNGHI

E INUTILI

DISCORSI CON LE

DONNE

 

 

I

ntervenga nei convegni con le fanciulle, ma di rado, perché non sia considerato inurbano, poiché egli vive con gli spagnoli; fugga i lunghi e inutili discorsi con le donne come è costume degli spagnoli e dei galli: mi meraviglio da dove si cavi la materia di tanti discorsi; che cosa può l’uomo imparare da una donna o da una fanciulla? Quali esempi prendere? Essa è nata per far la lana e trattare con conocchie e fusi, per distribuire i compiti tra le ancelle e alimentare la famiglia.

Né poi si deve avere una moglie zotica che si occupi soltanto che  la lana non sia ruvida, ma come dice Aristotile la donna dabbene deve governare tutto ciò che appartiene alla casa ma neppur conosca quanto è fuori il limitar della porta. 

Non è da uomo il frequente praticar colle fanciulle per il quale non solo si attenua ma si estingue la fiammella dell’animo dei giovani; ciò facciano i galli e gli spagnoli, non gl’italiani, perciò ci accusano di turpi delitti; né per questo li appelliamo molli, donnaioli effeminati, con lunga e arricciata chioma da fanciulli, pieni di unguento, dipinti, leggeri; anche noi ricevemmo dalle  donne tutti gli ornamenti, le collane, le vesti dipinte intessute d’oro. Col favore del buon Dio, prenderemo la conocchia e il fuso e lasceremo loro che trattino le armi come le amazzoni.

Se me lo attestassero gli Dei, neppur crederei che siano uomini forti e sapienti quelli i quali tutto il giorno praticano le donne e non hanno in cale le lettere che attendono ai giochi e vani parlari, che bramano cupidamente le vivande composte, che conoscono le varie specie di vino e di sapori, che si danno all’ozio e al sonno, che non si dipartono mai dal fianco delle donne.

Ai giovanetti neghittosi, infingardi e stupidi bisogna conficcar gli strali dell’amore perché eccitano gli animi languidi e sonnolenti: solo una sola volta sogliono congiungere i puledri alle cavalle, perché divengano briosi, perché la frequente venere infrange le gagliarde forze degli adolescenti e la libidine doma gli ingegni robusti.

Tu, Crisostomo,  mi potrai opporre Sansone, Salomone, Achille, Paride, Enea, Ercole, Annibale, le concubine di Alessandro e le egiziane di Cesare; ma se lo rammenti, morirono per i loro amori; io ti contrappongo le fatiche di Ercole, la demenza di Achille, il dissidio con Agamennone, poscia la morte, la presa di Troja, la distruzione di Pergamo, la morte di Sansone, l’empietà e l’idolatria di Salomone, i delitti di Davide e Betsabea rapita, e il marito ucciso, l’effeminato esercito di Annibale e la sua fuga dall’Italia. Che più: Una fanciulla stuprata dette in balìa dei saraceni (*) la Spagna la quale fu oppressa fino a Ferdinando e Isabella, salvatori della patria.

                                                                                                                                      

 

*) COME I MORI INVARSERO LA SPAGNA

 

 Secondo la tradizione (ma è lo storico Mariana che ne parla minutamente), la invasione della Spagna da parte dei mori sarebbe avvenuta per vendetta da parte del conte Giuliano, governatore della Mauritania Tingitana (possedimento in Africa dei goti), ricco e potente, padre di Cava, di strabiliante bellezza, damigella della regina Egilona, moglie del re Roderico.

Il re  (considerato la peste e la rovina del regno dei visigoti) un giorno l’aveva intravista da una finestra, mentre giocando con le amiche si era in parte denudata; dopo averla corteggiata, non essendo riuscito a ottenere i suoi favori con le buone, la stuprò; in ricordo dell’avvenimento, la porta di Malaga che Cava aveva attraversato per raggiungere il padre, prese il nome di Kaba Mais (la porta di Cava).

Giuliano per vendicarsi aveva suggerito l’invasione, parlandone con il generale Musa ibn Musair il quale prima di parlarne con il califfo volle informarsi sulla Spagna che da un abitante di Tangeri gli era stata così descritta: “La Spagna, supera tutte le regioni conosciute; è la Siria per la dolcezza del clima, è lo Yemen per la ricchezza del sole; è l’India per i fiori e i profumi; è il Catay per le sue miniere; è Aden per i suoi porti e le belle spiagge”.

Musa, avuto l’assenso del califfo, inviò Tarik ben Zeyad  alla testa di cinquecento cavalieri scelti, per tentare una sortita; Tarik sbarcò sulle coste dell’Andalusia, ai piedi della montagna che da lui prese il nome  Gebel-el-Tarik-Gibraltar.

Nella scorreria gli arabi non incontrarono alcun ostacolo e per di più ritornarono carichi di bottino (710); l’anno successivo fu fatta un’altra scorreria, ancora più proficua perché Tarik si stabilì ai piedi del monte Gibraltar e da qui ebbe inizio la conquista della Spagna.

 

 

FUGGA  E ABOMINI

I GIOCHI

 

 

F

ugga e abomini come la peste i giochi delle carte, dei dadi, degli scacchi e di ogni sorta nei quali si perde il tempo, la cosa più preziosa di tutte, che la legge sacra detesta.

Oh felici i tempi degli ebrei e della spedizione mosaica; oh felici quelli di Alessandro nei quali il gioco neppure si conosceva; ora la nostra vita, ho vergogna a dirlo, è un gioco; la sorte, i dadi, le carte le palle, i magli, le tessere, le tavole, che anzi noi stessi siam giochi non uomini. Le leggi turche tengono in abominio i giochi e il vino, le meretrici, i ruffiani e i sicari; i sacri canoni vietano i giochi eppure essi occupano palesemente senza alcun pudore le aule dei nobili e dei re, i luoghi  pubblici e privati: se gli stessi principi che lo vietano con editti, ciò fanno, che faranno i ladri? Di tutti i mali è causa la mala educazione, lo sprezzo delle lettere e il praticar con pessimi uomini. Nessun altro delitto, a mio giudizio, i re dovrebbero punire con più severità quanto i giochi, perché son essi la causa di tutti i delitti, da essi provengono i furti, gli assassini, le impudicizie, le bestemmie, i tradimenti, le rovine, le miserie e tutte le corruttele.

Persico, chiunque egli fosse, profano e scellerato inventore dei giochi, insegnò a perdere il tempo, la cosa più preziosa e trascurar le lettere, il miglior sostentamento della vita, ornamento nella prospera, unico rifugio nell’avversa fortuna a fuggire i travagli e gli esercizi che tanto giovano alla sanità del corpo e a seguir la pigrizia e gli ozi. Non si spreca più inutilmente il tempo, quanto nei giochi.

Quanto sia turpe e odioso il lucro che si cerca dal gioco, da ciò può congetturarsi che le sacre leggi comandano di restituire il danaro ottenuto in quel modo, come quello che si ricava dalle usure e dalla rapina.

In base ad alcune prove ritengo che il gioco  sia stato introdotto in Italia dai celti e iberi, come fonte di tutti i mali. Il rimedio sono le lettere, gli studi della filosofia, i colloqui con uomini dabbene, gli esercizi del corpo, la musica e la caccia.

 

 

QUALE CACCIA

E MUSICA

PER IL GIOVINETTO

DI VIVO INGEGNO

 

 

M

a quale caccia per il giovinetto di vivo ingegno: che renda una certa somiglianza con la guerra; non si eserciti alla pesca, né ad ingannare i pesci con l’amo o col vischio gli uccelli o a prender le fiere col cappio; ma da inseguire i cervi, le damme (daini), i lupi, i cinghiali, gli orsi e gli stessi leoni. Nella qual caccia si veggono i simulacri della battaglia; l’animo si fa desto, cresccono le forze, le membra acquistano gagliardia, si conserva la sanità dell’animo e del corpo, perché, come dice Galeno vi è esercizio congiunto al diletto.

Quando sarà libero da questa caccia, da uomo forte, attenda alla musica maschia, non effeminata, non molle, lamentevole, non lugubre; non approvo quella piena di brio, tumultuosa, perché questa è propria dei galli, quella appartiene agli spagnoli; l’una e l’altra temperi la gravità della musica italiana; gli autori appellano dorici, frigi o lidi i modi della musica [che attualmente dovrebbe essere insegnata nelle nostra scuole !ndr.].           

Leggiamo in Apuleio, nel primo dei Floridi, esser semplice il modo eolio, vario l’asiatico, querulo il lidio, religioso il frigio, bellicoso il dorico.

Quanta forza abbia il suono della musica per formare  gli animi dei fanciulli plebei e nobili. Lo insegnano gli istituti delle città greche e Platone e Aristotile, maestri di sapienza. Per la qual cosa furono negletti dai cristiani quei due generi, l’armonico e il cromatico, come troppo delicati e molli; solo fu conservato il diatonico, genere semplice e severo, quantunque anche questo sia stato corrotto con alcune note e modi di altro genere.

Dunque la musica temperi la severità della ginnastica, né ammollisca o snervi gli animi. Io ho udito i modi gallici e ispanici: gli ispanici, al certo piacciono di più, ma quelli rendono gli animi oltremodo concitati e avventati, questi rimessi e snervati; entrambi giova condire col sale italico.  

 

SE L’INCLITO

 ADOLESCENTE HA VOGLIA

DI LEGGERE IN VOLGARE…

E L’ESERCIZIO DEL CORPO

ESCLUDENDO

IL GIOCO DELLE CANNE

 

V

oglio che l’inclito adolescente canti non già:

“Cinzia ha preso me infelice con i suoi occhi”...

ovvero

“Il passero, delizia della mia fanciulla”...

 ma  piuttosto

“Poscia che Laurento in su la rocca”...

 

[nooooo!; le lascivie di Catullo ... Cinzia e il Passero ... le più belle dei nostri

 tempi scolastici ormai andati!  ndr.]

 

S

e ha voglia di leggere in volgare, legga la lingua toscana, legga Dante e Petrarca, poeti a mio giudizio non da disprezzarsi, specialmente quella nobile canzone del Petrarca, Italia mia; hanno essi sempre l’Italia sulle labbra e nel cuore e furono uomini dotti: Che cosa contrapporrà a quella canzone Giovanni Mena, l’Omero spagnolo? Vedesti mai quella strombettata col suo commento e col suo Aristotele di Cordova? [Averroé.v.  cit. art. Scuola di Padova].

Imparammo da fanciulli che occorre apprendere dai dotti; Aristotile, interrogato in qual modo qualcuno possa istruirsi più in fretta, rispose: Tra gli autori legga quelli che sono considerati gli ottimi; noi cerchiamo coloro che, come dice Microbio di Virgilio, siano periti in ogni disciplina. Ma torniamo da dove siamo partiti.

Nella musica dovrebbe statuirsi la legge che non si mutino di frequente il genere dei canti o le modulazioni; i dottissimi antichi stimavano che così venivano a mutarsi i costumi degli uomini.

Fra la caccia e la musica deve aversi grandissima cura dell’esercizio del corpo. Si eserciti al salto, alla piccola e grande palla, all’arco, alla spada, alle aste, non alle canne: fugga questo esercizio non mai abbastanza lodato dagli spagnoli, razza di uomini non punto avara di lode per se stessa e che io ammiravo prima d’aver veduto; dopo averli visti, lo confesso, sono uno sciocco, li ebbi in disprezzo.

Lo chiamano il gioco delle canne  nel quale non vi è altro se non certi striduli e arabici clamori e una certa forma di benda, di berretto e di barba e quell’inseguire mentre uno fugge, e se uno fugge, inseguirlo e opporre lo scudo non dinanzi al petto, come si conviene, ma da tergo e, o fuggire o inseguir chi fugge, di cui l’una cosa è vile, l’altra d’uomo non punto forte,  entrambe dei lievi mori (*).

Il tuo giovinetto, secondo il patrio costume, si scontri col nemico, ma di fronte, con le spade incrociate. Con queste arti i goti uscirono vincitori.

 

 

*) Cannarum certamen ludicum, una specie di torneo introdotto in Spagna dai mori che piaceva agli spagnoli.

 

 

DEI GENERI

DELLE VESTI

NON SO CHE DIRE

 

 

D

ei generi delle vesti non so che dire perché sono cambiate ogni anno e mostrano la instabilità della leggerezza francese; i galli usano ora scarpe appuntite, ora larghe, ora di toga stretta e lunga sino al tallone, ora larga, ora succinta, ora aperta, ora corta al di sopra delle vergogne, ora di veste screziata, ora scucita, ora che copre il capo, ora che lascia scoperti gli omeri.

Oh felice insania cui tengon dietro tutti i popoli cristiani. Io credo che se piacesse ai francesi di camminare ignudi colle vergogne scoperte, noi tutti seguiremmo la stessa moda. Oh! La gente più leggera che in tanti secoli non ha trovato le vesti che si confanno! Ma noi siamo oltre ogni credere, lievissimi, che li seguiamo e ammiriamo.

Non posso condannare, anzi, esecrare le usanze del nostro secolo, gli ornamenti da donna agli uomini, l’oro, la seta, e le vesti dipinte, le quali cose Catone vietava anche alle stesse donne.

Oh imprudenza! Anche questo ci insegnarono le nazioni straniere; l’Oriente corruppe i costumi dei nostri avi; l’Occidente poi, i nostri. Sento mancarmi quando penso, quando vedo queste cose; mi vengono spesso alla memoria le parole dei Gentili, che trascriverò per punire la mollezza e la lascivia dei cristiani: “Siano lungi da noi i giovani attillati come femmine;  la bellezza virile vuole essere aggiustata con pochi finimenti”. Che anzi Ovidio, parlando dell’arte di amare, cioè della venere permessa, per i quali libri, come credono alcuni, fu cacciato in esilio, esecrò la nostra turpitudine, perché, dic’egli “non ti piaccia arricciare i capelli col ferro, né fregarti le gambe con la ruvida pomice”. Lascia che si facciano tali cose quelli di cui si canta: che la madre Cibele urli con modi frigi. Ad uomini conviene una forma negletta:” e nello stesso luogo piace la mondezza, siano abbronzati i corpi nella campagna, sia la toga assai conveniente e senza macchia. Il resto concedi che facciano le lascivie le fanciulle e lo scostumato che voglia avere un uomo”.

Voi o fanciulle,resoingete i ghiovani pieni di unguenti, mitrati, dipinti, con collane, imbelettati, miniati, portanti chiome comprate e arricciate. Che dico uomini! Dio volesse che costoro non imitassero il vostro sesso come gli ornamenti!

Circe, figlia del sole amò Ulisse squallidoe gettato in lunghe peregrinazioni per terra e per mare; la bellissima Didone , un uomo per armi orrendo, Fedra un disadorno e coperto di sudore e di polvere, l’aurea venere, Adone stanco dalla caccia, arso dal sole e dal freddo e Anchise, pastore troiano e Marte, terribile per le armi, la luna Endimione; voi o fanciulle, amate gli uomini forti e induriti ai travagli; fuggite, respingete i giovani lascivi, delicati de effeminati e pettinati con grande cura.

 

 

COME E’ NATO

IL DOMINIO DELLE DONNE

SUI MARITI

 

 

A

 noi sembra cosa magnifica quel mutare ogni giorno le vesti. I persiani, i greci, i turchi e molte città di libero reggimento in Italia, a Ragusa, in Dalmazia che si governa assai bene con proprie leggi e può dirsi città italica piuttosto che dalmata, serbano da tanti secoli l’antica maniera di vestire. Anche Mosè, l’antichissimo legislatore, statuì di quali vesti dovessero coprirsi i sacerdoti, di quali i leviti, di quali il resto degli uomini, di quali le donne.

I romani avevano le proprie leggi e un’arte sola della guerra, le proprie vesti, il laticlavio, il paludamento, la toga, il pallio, il mantello; similmente le sette dei monaci hanno loro vesti speciali, conservano sempre lo stesso modo di vestirsi che fu stabilito dai maggiori, cui non è lecito mutare.

Noi italiani prima della venuta dei barbari, quando da noi stessi, non da nemici ma da emuli, facevamo con più mitezza la guerra, avemmo le vesti militari per i fanti e per i cavalieri e quelle per i vecchi e per i giovani, le virili e le muliebri; ora le matrone han preso dagli uomini le toghe virili, i manti, le tuniche, i berretti, le zone e i cinti o non so di quale altro nome vogliamo appellarli.

Da questo pur dipende la corruttela dei costumi, da questi principi, la sfrenata e impudente licenza, da ciò è nato poco a poco quel dominio delle donne sopra i mariti, perché nessuno si fece turpissimo a un tratto; anche questi sono ammaestramenti dei francesi e dei goti.

 

 

L’ILLUSTRE ADOLESCENTE

GETTI VIA

GLI ABITI FRENCESI

 

 

G

etti via, l’illustre adolescente, gli abiti francesi disonesti, impudichi, sconvenienti, non pure agli uomini, ma fino alle donne, per le quali sant’Agostino prescrive vadano non solo col petto, ma anche col capo velato. Tu vuoi esser tenuto per uomo? Ti piaccia mostrarti coperto, il collo, gli omeri, il petto e le mammelle.

Oh! E’ cosa degna non solo di riso, ma da vergognarsene, veder questi muliebri adolescenti e giovani, anzi pure vecchi con chioma altrui e nereggiante, con barba canuta, con mani inguantate, col petto nudo.

Certamente è da ammirarsi la fertilità del suolo di Spagna; è meravigliosa la feconda natura del capo, li vediamo calvi di notte, capelluti di giorno, anche in mezzo alla Spagna o alla Gotia, come vogliono piuttosto gli spagnoli, di vesti italiche che non sono né grette, né lussureggianti; sia mondo, non nitido; è anche da donna coprirsi d’oro.

L’oro è da re, come dice Plinio, ritrovato dai re d’Asia; ora, con le nostre spoglie, fatiche e sudori nostri, ogni gregario goto, poiché di nuovo cademmo in servitù dei goti, ogni fanciullo risplende d’oro dagli speroni. Già presero a tenersi a vile le nobili lane; la seta e l’oro brillano nelle piazze, nel foro, nei bordelli. Già son venuti gli aurei secoli per gli spagnoli, ultimi fra gli uomini; a noi quelli di fango nei quali neppur ci resta come vivere.

Quando cammino per la città mi sembra di vedere i templi, le pompe, le solennità religiose; son tanti quelli che incontro dappertutto i quali, or non è molto,  avevano appena velli di capre e pelli di carogne per coprirsi le membra, ora decorati  di candidissimo lino, di seta e di sacre vesti trapunte d’oro; ed osano lamentarsi dei santi re per i negati stipendi.

Credimi, Crisostomo, appena sette migliaia di soldati han messo e mettono a ruba tutte le ricchezze di questo misero regno senza alcun timore, senza alcun rispetto del diritto divino e umano.

Già spremuto il latte, si è giunti al sangue; a noi sovrasta la fame, l’inedia, la miseria; né sembra che avran fine i nostri mali, finché voi, benignità dei re cattolici veniate a noi, o moriamo tutti di peste, di fame e del ferro. I soldati spagnoli non hanno né modo, né ordine, né misura; sprezzano i comandi dei duci, godono nel distruggere ogni cosa, avvezzi, come credo, a combattere con infedeli più per odio e per rancori che per dominio.

             

 

SONO VENTIQUATTRO

ANNI CHE

I TURCHI SBARCARONO

IN ITALIA

 

S

ono ventiquattro anni dacché i turchi, passato lo stretto tra Aulona [Valona]  e Otranto (*), sbarcarono per la prima volta in Italia (1480).

La Giapigia, quella piccola penisola, sopportò quindicimila turchi e ventimila dei nostri e una flotta di trenta trireme e di quaranta navi per un anno; né in sì grande calamità apportarono tante migliaia di uomini, quanta in pochi mesi millesettecento spagnoli, onde è nato il proverbio: in quella terra: “dove gli spagnoli stamperanno le ombre non nascerà un filo d’erba”.

Sono peggiori gli insulti, le contumelie, le insolenze che le rapine, le frodi, i furti, i latronecci, colle quali arti sfruttano coll’intemperanza e  avarizia la nobile vittoria contro i francesi, di modo che tutti stimano esser spagnoli più insopportabili in pace, che in guerra, peggiori dei galli e che superano in ferocia e inumanità i goti loro progenitori. Di questi mali è causa la cattiva educazione.

Noi infelici che siam lungi dai nostri re! Chi ardisce o può dire il vero ai re? E’ cosa assai difficile che essi posti così lungi nell’estremo del mondo, conoscano la verità, avendo intorno adulatori.

Per la qual cosa alcuni principi, preso l’abito plebeo sogliono da incogniti errar per le taverne, per le piazze e per i templi affinché da se stessi apprendano quel che di loro senta il volgo, gli artefici, le donnicciole, compiendo in tal modo un’opera degna di principi ottimi.

Niente dunque è più degno di re, che udir pazientemente tutte le cose che di loro si dicono, perché non possono altrimenti diventar buoni. Dovrebbe richiamarsi alla memoria quel pittore che esponeva le sue opere al giudizio del popolo e dei magnati, in tal modo le correggeva se qualcosa fosse stata mal eseguita. Per cui essi debbono guardare che niente si faccia inettamente, niente con cupidigia, niente con stoltezza, niente con insipienza, niente con leggerezza, niente sconsideratamente, niente con ingiustizia e per servirmi della sentenza di uno dei sette savi, niente di soverchio; e di quell’altra divina sentenza: che conoscano se stessi.

Sappiano di essere uomini e che Dio sarà un giorno giudice come dei privati, così dei principi e quanto più loro avrà dato, tanto più rigorosamente sarà per domandar conto e dirà loro: rendi ragione del governo della tua città.

Che cosa hanno di più i principi degli umili artigiani e poveri contadini, fuorché gli onori, le vesti dipinte, i cibi delicati, le pubbliche cerimonie, le adulazioni, i vini gli unguenti, le voluttà?

Queste vanità ridicole, nessun sapiente ha tenuto per beni, ma cause di miseria e infermità. Conviene ai re esser desiderosi del vero onore, di gloria e fama che vivrà dopo di essi. Che se il volgo, se i magnati, se i popoli lontani ne parlano male, se gli uomini dabbene, quantunque tacciano, pure pensano male del principe, non vi è più luogo all’onore; poiché si stimano più turpi quelle cose che si intendono, col silenzio e con i cenni che quelle che si dicono pubblicamente; queste per i continui discorsi più presto tendono a dileguarsi; quelle poi col silenzio, col timore e coi segreti rumori, s’insinuano e scolpite più profondamente nell’animo umano durano più a lungo.

Sta sano.

 

*) Sull’ assedio e l’eccidio di Otranto, Galateo ne parla nel Cap. I “Del sito della Giapigia” e sul Combattimento dei “Tredici cavalieri di Barletta “ (La disfida di Barletta), nel vol. II .

 

FINE